All’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, una delle più importanti e prestigiose istituzioni al mondo nel campo del restauro, guidato dalla Soprintendente dottoressa Isabella Lapi Ballerini, sono attualmente in restauro tre capolavori di Agnolo di Cosimo Tori detto il Bronzino. I restauri sono diretti da Marco Ciatti, Direttore del Laboratorio Dipinti. Su due delle opere che saranno esposte nella mostra “Bronzino. Pittore e poeta alla Corte dei Medici” (Palazzo Strozzi 24 settembre 2010-23 gennaio 2011) sono emerse novità importanti. Un volto di satiro con espressione ammiccante è apparso all’altezza della schiena del bambino in primo piano in “Venere, Amore e Gelosia” e la posizione della tesa del Cristo Panciatichi è diversa da come era stata inizialmente pensata.
Queste sorprendenti scoperte sono emerse grazie all’indagine multispettrale N.I.R, condotta dall’Istituto Nazionale di Ottica del CNR di Firenze.
Bronzino: Venere, Amore e Gelosia (o Invidia), 1550
In questa tavola Bronzino dipinse per un ignoto committente una delle tre allegorie con Venere e Amore (le altre due sono conservate alla National Gallery di Londra, e nella Galleria Colonna di Roma). Il soggetto deriva dalla poesia d’amore e ruota, nelle tre tavole, intorno al tema dell’amore carnale e del suo influsso sull’esistenza degli uomini. L’opera raffigura infatti Venere che ha tolto una delle frecce ad Amore e disputa con lui rivolgendo la freccia verso il basso, mentre il figlio la rivolge verso l’alto. Alle spalle di Venere vi è un grande vaso di rose, suo attributo iconografico, mentre sul fondo una figura mostruosa (Invidia o Gelosia) con serpenti nei capelli, sembra fuggire. In primo piano vi sono due fanciulli che giocano con una corona di fiori accanto a due maschere, una delle quali raffigura un satiro.
Durante le indagini effettuate in vista del restauro la riflettografia ha mostrato una evidente variante iconografica. All’altezza della schiena del bambino in primo piano è infatti apparsa non la maschera, ma il volto, disegnato fino al collo di un vero e proprio satiro che guarda dal basso Venere con espressione ammiccante. Venere indicava verso di lui con la freccia, a sottolineare la sua preferenza per un amore solo carnale, mentre il figlio, in opposizione, alza la freccia in alto a indicare l’amore celeste. Bronzino, al pari di altri grandi artisti, era solito mutare la composizione dei propri dipinti in corso d’opera, ma questa volta la presenza di una figura poi cancellata rendeva questa composizione simile alla tavola della Collezione Colonna, dove un giovane satiro, anch’esso simbolo di amore carnale, irrompe nella stanza in cui Venere scherza con Amore. Durante la realizzazione dell’opera Bronzino reputò forse eccessiva la presenza della figura disegnata, e ne introdusse il medesimo significato simbolico attraverso la sola maschera.
Restauratori: Chiara Rossi Scarzanella; Francesca Cioni Passeri.
Bronzino, Cristo Crocifisso, 1540-41 circa
Il dipinto, descritto da Vasari e creduto perduto, è stato identificato e restituito al Bronzino da Carlo Falciani e Philippe Costamagna, ed è una delle principali aggiunte al corpus pittorico dell’artista, nella quale verranno presentate altre due opere inedite. Questa tavola era stata dipinta per Bartolomeo e Lucrezia Panciatichi, i cui ritratti sono conservati agli Uffizi, ed è un’opera chiave per comprendere la religiosità riformata della Firenze degli anni quaranta del Cinquecento. Bartolomeo e Lucrezia vennero infatti processati per eresia luterana nel 1551, e quest’opera che raffigura non una Crocifissione, ma la nicchia di un altare con un Cristo crocifisso quasi scultoreo, è testimonianza della religiosità dei committenti che, secondo gli scritti di Juan de Valdès e del Beneficio di Cristo, credevano nella giustificazione per sola fede. La riflettografia eseguita sul Cristo Panciatichi ha rivelato, secondo modi usuali nella pratica esecutiva del Bronzino, un disegno preparatorio che è stato molto variato in corso d’opera. Nel disegno il corpo di Cristo appare come schiacciato dal proprio peso, la testa è reclinata e cade all’altezza del petto mentre le braccia, ora parallele alla croce, formano un angolo più acuto e tendono verso l’alto, laddove tutto il busto è abbassato e obbliga le gambe a piegarsi verso destra. Se quel corpo fosse stato dipinto secondo il disegno sottostante l’effetto sarebbe stato essere più drammatico, e molto più simile a immagini di savonaroliana memoria dove la sofferenza del Cristo stava a monito verso i peccati commessi dagli uomini. Si sarebbe esaltata insomma la sofferenza della morte sulla croce e, di conseguenza anche le sofferenze necessarie all’uomo per la salvezza. Il dipinto avrebbe raggiunto un effetto patetico come molti crocifissi trecenteschi, oppure come nei tardi disegni di Michelangelo per un Crocifisso. Ma la salvezza offerta per la sola fede, anche nelle parole di Valdès care ai Panciatichi, non chiedeva sofferenza, ma fiducia, e lo stesso Benedetto Varchi scriveva di colui «che tutti / aspetta con le braccia aperte in su la croce eletta, / per dar salute ai buoni, a’ rei perdono. / Perdon gli chieggio umilmente, e certo / son ch’io l’avrò, ché le parole sue / mentir non ponno». Bronzino, in obbedienza a tali pensieri tralasciò il disegno eseguito, come testimonia Vasari, da un vero corpo morto confitto in croce, e rese più dolce e serena la composizione, ispirandosi sia ai pensieri valdesiani che alla statuaria di primo Quattrocento.
Restauratori: Oriana Sartiani, Caterina Toso
Bronzino, Doppio ritratto del Nano Morgante, 1553
Dopo la pala per la Cattedrale di Pisa, Vasari ricorda come «ritrasse poi Bronzino al duca Cosimo Morgante nano ignudo tutto intero, et in due modi, cioè da un lato del quadro il dinanzi e dall’altro il di dietro, con quella stravaganza di membra mostruose che ha quel nano, la qual pittura in quel genere è bella e maravigliosa». Il dipinto è ricordato in un inventario mediceo del 1553, e rappresenta un unicum fra le opere del Bronzino, in quanto costituisce un parallelo diretto delle rime burlesche in cui il pittore eccelleva, ma anche una presa di posizione nella disputa sulla maggioranza delle arti, promossa dal Varchi qualche anno prima. L’opera doveva infatti essere esposta al centro di una sala, su un piedistallo al pari di una scultura, in modo che fossero visibili entrambi i lati. Il Bronzino vi dimostrò quindi, oltre alle possibilità naturalistiche proprie della pittura, capace di raffigurare anche le membra deformi del nano di corte di Cosimo I, anche il predominio di questa sulla scultura. La pittura infatti è capace, al pari della scultura, di offrire più vedute di una stessa figura, ma anche, cosa impossibile alla scultura, di raffigurare lo scorrere del tempo. Se nel lato della veduta frontale Morgante è rappresentato con gli strumenti della caccia notturna, nell’altro lato della tela Bronzino non offre una veduta dello stesso momento, bensì «lo Morgante con i vari uccelli catturati», quindi la fine della caccia. Probabilmente nell’Ottocento, durante gli anni in cui il dipinto era appeso sulle pareti del Poggio Imperiale, la veduta frontale venne considerata oscena, e il Morgante fu trasformato in un Bacco che mesce vino, alterando così per sempre l’iconografia di uno dei capolavori del Bronzino. Nel restauro verranno tolte le aggiunte ottocentesche in modo che torni leggibile l’insieme dei ragionamenti che il Bronzino vi svolse, affidati anche a vari simboli dispersi nel partito naturalistico, come le grandi farfalle che volano intorno alla figura deforme di Morgante.
Restauratori: Ezio Buzzegoli, Diane Kunzelmann, Deborah Minotti