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A Maggiano c'è stato un tempo in cui i matti cantavano

Nel Settecento gridavano per le terapie costrittive, negli anni Sessanta cantavano. Non tutti sanno che nel manicomio di Tobino c'è stato anche un Festival della canzone

/ Gianluca Testa
Ven 14 Settembre, 2018
Manicomio di Maggiano, i biglietti da visita di Mario Tobino

Dove la strada comincia a salire c'è un campo di girasoli appassiti. Sembra che abbiano perso la forza e la voglia di seguire quel ciclo naturale di vita che giustifica la loro esistenza. Del resto siamo in un caldo giorno di fine estate. E le tristi corone rivolte a terra diventano il preludio malinconico di quello che si aprirà alla vista pochi metri più avanti e più in su, svoltando a destra in quel vialetto d'ingresso chiuso da un cancello verde e cosparso di foglie secche. Quei fiori sembrano consapevoli delle storie che si sono intrecciate e consumate nel manicomio di Maggiano, su quel colle in provincia di Lucca. Sembra ne abbiano assorbito il colore e il dolore.

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Quella terra deve aver sentito e assimilato le grida di quando, ormai un paio di secoli fa, l'unica terapia applicata era quella della costrizione. A cercarla oggi sul dizionario dei sinonimi, scopriremmo che la parola "costrizione" può essere agevolmente sostituita da un altro sostantivo: violenza. Ma nel Settecento, dopo l'abolizione dell'ordine religioso che abitava quel monastero, una bolla pontificia stabilì il passaggio del grande edificio spirituale nelle mani dell'ospedale lucchese di San Luca (o della Misericordia). Nomi e definizioni che suonano come ossimori, soprattutto se si pensa che i primi pazienti furono i detenuti e i primi infermieri non erano altro che contadini della zona "abituati ad aver a che fare con gli animali". Non stupisce, quindi, che la prima terapia applicata fosse proprio quella della costrizione. I medici, quelli veri, nella bella stagione salivano a Maggiano solo una volta alla settimana. Visite che si facevano sporadiche nei mesi invernali, quando i dottori, quelli veri, salivano sul colle dell'ospedale non più di una volta ogni trenta giorni. Quel che succedeva in mezzo, tra una visita e l'altra, è una storia che sanno in pochi e che nessuno può più raccontare.

Di anni ne sono passati parecchi, e con loro le storie di vite difficili che tra quelle mura e in quei cortili si sono intrecciate, sovrapposte, scontrate e perfino illuminate. Oggi questo patrimonio di memorie - o di ciò che ne resta - è fortunatamente sopravvissuto grazie anche al lavoro della Fondazione Mario Tobino, che non a caso prende il nome dal medico e scrittore che per primo (e meglio di ogni altro) ha raccontato la follia. Le sue due stanze, quelle in cui ha vissuto durante la professione e in cui ha ottenuto il permesso di continuare a vivere anche dopo la pensione, sono state restaurate e ricreate esattamente com'erano. La macchina da scrivere Olivetti che ticchettava ogni sera è come quella usata da Tobino, ma non è quella di Tobino. Tutto il resto, però, gli è appartenuto davvero. Il camice, l'antico e piccolo letto, la libreria con i biglietti da visita esposti insieme alle prime edizioni dei suoi romanzi. Ma anche la televisione di fronte alla quale si addormentava di notte. Tant'è che, conclusa la programmazione, il medico di guardia che gli abitava a parete sentiva chiaramente il sibilo continuo che scattava dopo la mezzanotte. Fine delle trasmissioni.

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Quella stanza attigua al bilocale di Tobino fu abitata per un periodo anche dal dottor Devoto, figlio del più noto Giacomo Devoto che insieme a Gian Carlo Oli ha pubblicato il dizionario della lingua italiana che ancora oggi molti studenti maneggiano durante i compiti in classe, più per necessità che per diletto. E, curiosità tra le tante, erano proprio i medici di guardia che i centralinisti andavano a disturbare quando qualcuno chiamava alla ricerca di Mario Tobino. Lui il telefono in camera non l'ha mai voluto. Chi lo cercava passava dunque dal centralino, che di conseguenza cercava il medico vicino di stanza che, di buona lena, usciva dal suo rifugio per bussare alla porta del medico-scrittore. La risposta era quasi sempre la stessa. «Non ci sono per nessuno!», gridava lo scrittore senza aprire il chiavistello.

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Tobino il telefono lo farà collegare alla sua stanza solo una volta raggiunta la pensione, quando ormai il centralino era solo solo un ricordo. Un apparecchio visibile a tutt'oggi insieme ai suoi oggetti più preziosi, memorie di una vita intensa e pienamente vissuta. Segni ormai indelebili di una memoria che si fa rarefatta sia per l'indifferenza del mondo moderno sia per il barbaro vandalismo di chi ha scelto di saccheggiare e deturpare le testimonianze del tempo. Due esempi tra tutti: la chiesa e la biblioteca. Dal 1999, anno della chiusura del manicomio, i fine settimana sono stati teatro di spietate incursioni che hanno causato danni irreparabili a luoghi cosparsi di sacralità laica e religiosa. Spazi come la chiesa, i cui marmi riportano le ferite delle gratuite bravate che proseguono a tutt'oggi. E pensare che gli allarmi e le telecamere di sicurezza, solo negli ultimi anni, hanno permesso di identificare un centinaio di vandali. Sono per lo più giovani e giovanissimi estranei al senso del rispetto. E poi c'è la libreria, coi suoi 2.700 testi. Tra questi c'erano titoli rari firmati dai padri fondatori della psichiatria, spesso in lingua originale, in greco o in latino. Testi antichi, poche copie disponibili nel mondo. Eppure sono spariti. Dissolti, scomparsi, proprio come certe anime che da Maggiano sono transitate senza lasciare tracce visibili.

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Per qualcuno è solo una questione di controllo sociale, per altri è una questione di numeri. Al tempo dei manicomi, quando a Maggiano vivevano - degenti o medici o infermieri che fossero - più di 1.400 persone, gli internati furono al massimo 110mila. Un confronto impietoso se pensiamo che le persone in in carico ai servizi di salute mentale sono oggi circa un milione. A quarant'anni esatti dalla legge Basaglia, che sancì la chiusura dei manicomi (una definizione a dir poco approssimativa), siamo di fronte a un rapporto poco più alto di uno a settecento.

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Se siamo tornati a visitare Maggiano è solo grazie al tradizionale seminario settembrino del Centro nazionale per il volontariato che, non a caso, ha sede a Lucca. Il seminario residenziale prevedeva anche la visita all'ex manicomio e l'intervento di Vito D'Anza, psichiatra e portavoce del Forum nazionale della salute mentale, che ha fatto il punto (se così si può dire) sulla legge 180. L'essenza del suo intervento? La distinzione tra la medicina, interessata alla malattia, e la psichiatria, che viceversa s'interessa alla persona. D'Anza he messo in evidenza un'ulteriore anomalia della politica, che ha legiferato su questa e non su altre discipline. Per intenderci: non una legge sull'ortopedia o la cardiologia è mai stata fatta. «Tutto questo perché alla psichiatria corrisponde il tema del controllo sociale», ci dice. Del resto i manicomi erano ad esclusivo appannaggio dei ceti sociali più bassi. Qua andavano a concludere le loro esistenze gli esclusi, spesso rifiutati e dimenticati perfino dalle loro famiglie. Sempre che ne avessero una. Ex detenuti, diseredati, poveri, persone depresse o respinte. Come Ettore, figlio mulatto di una relazione tra una donna della Garfagnana e un alleato americano arrivato per liberarci dal nazifascismo. Per lui, nessuna accoglienza. Fu rifiutato dal paese e dalla società post bellica, costretto suo malgrado a vivere da sano di mente una vita in manicomio. E non aveva alcuna colpa, se non quella che d'esser nato nel posto sbagliato, in un momento sbagliato.

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In questo luogo quasi dimenticato ci sono temi ricorrenti. Porte, chiavi, chiavistelli, grate. Ci sono ovunque tracce (per lo più minimali) delle esistenze che si sono trascinate in questi spazi in cui il rapporto tra pazienti, medici e infermieri si trasformava, soprattutto negli anni più recenti, in una relazione familiare. Le scacchiere scavate nella pietra dei chiostri lasciano in eredità segnali di vita, incisi ancora oggi in quell'opera architettonica e muraria che fu realizzata dalla stesse maestranze che prestarono il loro servizio per l'edificazione della Certosa di Farneta.

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E se nel Settecento i matti gridavano a seguito delle "costrizioni" subìte, negli anni Sessanta del secolo scorso arrivarono perfino a cantare. I tempi erano cambiati e con loro anche le relazioni e le terapie. Sulla scia di Sanremo, per alcuni anni a Maggiano si celebrò il "Festival della canzone". Un'attività socio-terapica per certi versi antesignana dell'arte-terapia e che aprì le porte del manicomio all'estero ospitando pubblico, visitatori, medici e cantanti. Brani che a tutt'oggi, da qualche parte, continuano a esistere sui 33 giri incisi all'epoca. Tracce di un'esistenza che, anche se solo per un breve periodo, ha restituito a questa gente dignità e identità.

Anche per questo visitare il manicomio di Maggiano è un'esperienza rara e preziosa. Ci sono testimonianze e narrazioni che emergono dietro porte ormai logore, tra la polvere di stanze abbandonate, nelle cucine o nei dettagli dei chiostri. Nell'ultima giornata nazionale del Fai, in un solo fine settimana Maggiano è stato visitato da 8mila persone. Segno evidente di un interesse che non si esaurisce con gli anni. Grazie alla Fondazione Tobino le visite proseguono l'ultimo sabato di ogni mese. Solo piccoli gruppi alla volta, massimo venti persone. Fino a dicembre le visite guidate sono al completo, ma dal 2019 ci sarà l'opportunità di nuove prenotazioni. Dove comincia il percorso? Dal cortile retrostante a quelle che furono le abitazioni e la mensa dei medici. Lo stesso cortile che Tobino trasformò in giardino andando a scegliere personalmente le piante da collocare in questo spazio verde, accompagnato da un infermiere. È qui che volle piantare un pino. Gli ricordava la sua Viareggio. Oggi la chioma di quell'albero ha superato l'altezza dei tetti. Ed è sempre un po' più vicino al cielo.

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Info
www.fondazionemariotobino.it